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Riposi in pace

  • Gianni Spartà
  • 02/12/2023
  • 0

L’ultima edicola a Varese

Ho visto abbattere l’ultima edicola nel centro storico di Varese e mi è venuto il magone. Scusate, la sensazione è personale: il 5 novembre del 1973 scrivevo il mio primo articolo da praticante giornalista. Sceglievo una strada scartandone altre. I miei si aspettavano qualcosa di più, anche Ettore Pagani, decano delle toghe varesine, che mi interrogò nella piazza del tribunale: “Perché non fai l’avvocato?”. “Perché è un mestiere che ti porti anche a letto”, gli risposi firmando la mia condanna. Ogni volta che mi lamentavo con lui per le fatiche del cronista mi zittiva: “Sempre meglio che dormire con un processo sul cuscino. L’hai detto tu. Adesso pedala”.  Insomma: è andata così. L’edicola fatta a pezzi accanto all’ingresso di Villa Mirabello serve a tracciare un bilancio. La mia generazione si definisce figlia degli anni del piombo. Non c’entra il terrorismo, ma la materia prima con la quale si confezionavano i giornali. C’erano i linotipisti nello scantinato di ogni quotidiano: in canottiera anche nei mesi freddi, con un fazzoletto al collo, smanettavano sulla tastiera posata su una piccola fonderia e in questo modo imprimevano caratteri di stampa su lingotti di metallo fuso che quando si raffreddavano diventavano timbri. Ogni lingotto era una riga di un articolo. Tanti lingotti una appresso all’altro in verticale formavano una colonna di giornale. La metamorfosi si compiva quando l’oggetto inchiostrato riproduceva su una pagina di carta il contenuto di un pezzo pronto per le correzioni e la lettura. Telefonini, smartphone, pc portatili hanno pure fatto il vuoto nelle tipografie. A una strada nel cuore di Londra bisognerebbe cambiare nome: da Fleet Street,  la via dell’inchiostro perché lì si affacciano gli stabilimenti dei grandi giornali britannici, a Tweet Street. Da un’industria pesante come il piombo a una leggera come il cinguettio di un messaggio di 140 caratteri. La notizia si è smaterializzata, la pagina di un giornale, che un tempo si trasportava su un carrello di ferro verso le bocche delle rotative, è una pellicola quasi invisibile, il giornalista scrive, titola, video-impagina, inserisce fotografie in spazi predeterminati, non verga una sillaba in più perché lo spazio è quello e non si dilata. I giornali, tra alti e bassi, attraversano il tunnel di una lunga transizione con sbocchi imprevedibili. Non spariranno affatto. La Sony commercializzò la prima fotocamera digitale nel 1981, la Kodak ha chiuso i battenti nel 2009. E noi siamo dentro questo spazio che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si riduce, si allarga, si allunga, si accorcia. Intanto si registra qualche fenomeno di pentitismo digitale o di reazione al potere seduttivo di Internet. “Voglio tornare a leggere lentamente, con cura. Voglio assorbire un libro difficile e ritirarmi nei miei pensieri”,  ha detto Andrew Sullivan, che non è un vecchio incapace distinguere un tablet da uno bicchiere, ma uno dei primi giornalisti tradizionali catturato dal fascino del mondo nuovo. Internet non è un altrove, è solo un punto d’osservazione, comodo e diverso, della stessa realtà. Chi vivrà vedrà. Fa anche rima                                                                                                                                                                

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