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Esorcismo

  • Gianni Spartà
  • 09/11/2024
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Giudici comunisti

Manca un mese abbondante alla resa dei conti che in un Paese normale dovrebbe essere solo la fine del processo a un ministro accusato di sequestro di persone. Senonché siamo assuefatti alla guerra dei trent’anni tra politica e magistratura e perciò la lettura di una sentenza si annuncia come l’esito di una battaglia napoleonica. Il protagonista della vicenda è Matteo Salvini accusato d’aver impedito lo sbarco di 147 migranti da una nave umanitaria che li aveva soccorsi in alto mare. Ma egli è il soggetto occasionale di una questione assai più importante. Abbiamo una magistratura eversiva? Possibile che i “giudici comunisti” siano sempre di turno quando bisogna processare esponenti del governo in carica? Tanta sfortuna richiederebbe un esorcismo contro l’accanimento del diavolo. Il risultato è un derby tra squadre che dovrebbero militare in campionati diversi e che invece, da Mani Pulite in poi, riducono a una barzelletta la separazione dei poteri. Questo anche per la facilità con cui numerose toghe si sono ritrovate in parlamento o al governo rinunciando all’unicità quasi sacra del loro ruolo. Diciamolo: un procuratore non conta meno di un ministro e invece vorrebbe essere al suo posto e spesso c’è riuscito. Si potrebbe giustificare il cambio di maglia con l’idea di servire meglio il bene comune. Ma guardate com’è ridotta la politica: un leader non dura più di tre anni, poi cominciano cuocerlo a fuoco lento fino a ridurlo a bistecca mentre non esiste in Italia categoria più forte della magistratura. Fino a prova contraria.  E allora la spinta fatale va ricercata nel profondo dell’animo umano. Non c’è comizio che garantisca visibilità come un’inchiesta spettacolare e spettacolarizzata. Uno diventa personaggio senza accorgersene oppure accorgendosene dai canti languidi che sciolgono per lui le sirene dei partiti. Nel caso Salvini, tralasciando il merito, e cioè l’aver “difeso i confini nazionali” dall’attacco di una nave con 147 larve a bordo, si osserva una anomalia di sistema. Un dibattimento penale si conclude con la requisitoria del pubblico ministero, la parola alle parti civili e alla difesa e subito dopo l’ingresso dei giudici in camera di consiglio per decidere: assoluzione o condanna. Ora, da quando l’accusa ha chiesto sei anni di reclusione per Matteo Salvini al giorno del verdetto previsto per il 20 dicembre saranno trascorsi tre mesi. Durante i quali la gazzarra s’è impadronita della ribalta mediatica. Se questo avvantaggi la corte, rinfrancandola, o l’imputato, che si proclama martire, non sapremmo indovinare. Certamente eliminando i tempi morti tra la prima e l’ultima udienza si sarebbero arginate le tifoserie sugli spalti. E invece nelle notizie dei tg, anche alla vigilia della resurrezione presidenziale di Trump, non mancano aggiornamenti sul processo di Palermo perché lo scenario si è dilatato con l’aggiunta di ordinanze, ricorsi, polemiche sull’operazione Albania. Dopo il comico dietrofront ordinato dai giudici alla prima spedizione, ecco la lite più generale sui Paesi sicuri nei quali portare migranti stranieri in uscita dall’Italia. E’ un gioco al massacro delle istituzioni animato da alte cariche: la presidente del Consiglio, il presidente del Senato, il capo dell’associazione magistrati, singoli giudici che usano le chat a titolo personale. Lo scontro mai come in questa occasione pare pilotato con sapienza. Non sta zitto nessuno. Figuriamoci l’imputato il quale sa benissimo, ma finge di non saperlo, che sulla delicata materia dei flussi migratori la legge nazionale è assoggettata all’orientamento vincolante dell’Europa. Perché finge di non saperlo? Beh, gli fa comodo politicamente. Ha un partito schiacciato tra incudine e martello. Salvini, nelle more del suo processo, fa quello che meglio gli riesce. E’ cinico, non è stupido. 

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