Frigoriferi d’Italia
- Gianni Spartà
- 22/11/2024
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Ignis, Whirlpool, Beko
E pensare che Giovanni Borghi faceva scrivere orgogliosamente Frigoriferi d’Italia sotto il marchio Ignis per alcune collezioni speciali. E pensare che il cumenda s’era messo a costruire il frigorifero a doppia porta nei primi anni ’60 perché aveva in testa l’America. E pensare che gli americani della Whirlpool, proprio a Cassinetta di Biandronno, ripresero in mano il modello italiano del Side by Side e lo rilanciarono senza cambiare una virgola. E pensare che Giovanni Borghi e Lino Zanussi avevano capito l’antifona mezzo secolo fa: mettiamoci insieme tu e io e creiamo il polo degli elettrodomestici bianchi sennò le multinazionali prima o poi ci mangiano vivi. E pensare che oggi sull’ex corazzata Ignis esercitano signoria i sultani di Beko e su quella di Zanussi gli gnomi svedesi di Electrolux. E pensare, infine, che c’era in pensiero, cantava Giorgio Gaber. Questo: è finita la festa, comincia la guerra fredda a Cassinetta di Biandronno, ma anche nello stabilimento a Siena. In quello di Napoli c’è stato già il funerale. Nessuno può dire: i turchi non li abbiamo visti arrivare. E nemmeno che i tagli erano inaspettati. Lo erano dai tempi di Whirlpool che vide bene di sloggiare da Comerio e trasferirsi a Rho col suo quartier generale per non avere rogne nella terra di Giovanni Borghi. Il cui culto fu sempre osservato con devozione dagli americani. Però quando nel 1989 il big boss di Whirlpool David Whitwam annunciò lo sbarco in Europa scegliendo come porto d’ingresso l’ex Ignis, mise subito le cose in chiaro. Aveva davanti a sé gli orfani del leggendario familismo di Giovanni Borghi, simile a quello di altri re dell’industria negli anni del miracolo italiano. Sorrise come fa l’ospite quando entra in casa d’altri e poi disse: “Sono qui per badare principalmente gli interessi del mio azionista, cioè del mio padrone”. Che non aveva un volto, ne aveva migliaia: i sottoscrittori di fondi pensionistici non solo statunitensi. L’approccio fu onesto, ma fermo. La cultura delle multinazionali cominciava a cambiare pelle al capitalismo vecchio stampo. La nuova regola era: prima il profitto, come d’altra parte aveva teorizzato il premio Nobel Milton Friedman individuando nei conti in salita la vera responsabilità sociale di un’impresa. Insomma: come pretendere che il verbo dei turchi sia diverso da quello di Whitwam nel 2024, quando il business del frigorifero, ma anche del forno e della lavatrice, è ridotto al lumicino? Semmai si può pensare a un patto etico che 181 top manager di altrettanti colossi globali, tra i quali Apple, stipularono l’ottobre del 2019: si devono arricchire anche i lavoratori, i fornitori, le comunità di riferimento, altrimenti si fa naufragio. Il business fine a sé stesso è economicamente effimero e socialmente pericoloso. Beh, ci acconteremmo che i lavoratori riuscissero a continuare a guadagnarsi da vivere. Ma la domanda è un’altra: quel manifesto buonista è sempre in vigore?