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L’Arca di Noè

  • Gianni Spartà
  • 28/11/2024
  • 0

De Filippi 75

Il miglior archivio del Convitto De Filippi sono i suoi muri che si apprestano a compiere 75 anni. Muri moderni perché la sede originaria fu l’adiacente Villino Perabò immerso in un parco sulla sommità della collina dei Miogni. Ma se potessero scrivere o parlare, cemento e mattoni racconterebbero ai contemporanei il meglio delle vicende varesine racchiuse nell’impalpabile cesto della memoria. In quel dedalo di sale, saloni, stanze, corridoi, ingressi hanno sostato studenti, sacerdoti, vescovi, cardinali, autorità civili e militari, inservienti e operai. Il cuore della Varese cattolica e borghese ha battuto lì dentro negli anni duri del dopoguerra, in quelli esaltanti del miracolo economico, negli ultimi a cavallo di due secoli caratterizzati da un miscuglio di sensazioni: il declino, la crisi delle leadership, la difficile speranza di ricostruire nel Paese una classe dirigente oltre che capace, duratura. Oggi al De Filippi s’incontrano ragazzi e ragazze sotto i vent’anni che imparano l’arte dell’ospitalità alberghiera (foto) ; allora, fino agli ’80, c’erano liceali, futuri geometri e ragionieri, figli di una provincia che senza snobbare l’istruzione pubblica, sceglieva quella parificata. Ma salendo al primo piano dell’edificio progettato da un ingegnere morto centenario, Antonino Mazzoni, si prova uno struggente senso di vuoto. Il convitto è da tempo sospeso in un limbo. Le camere sono deserte, gli arredi intatti, le tapparelle abbassate. Non per sempre, si dice. Da qualche mese un fondo finanziario tedesco è interessato al rilancio del De Filippi in un territorio con nuove vocazioni. Che poi tanto nuove non sono: ospitalità, villeggiatura, studio, sport. Auguri!  Intanto bisogna tenere viva la storia di un luogo che lo studente Giuseppe Zamberletti definiva il “cenacolo civile”, altri il “cenacolo dei poteri, pensando che sindaci, prefetti, questori, colonnelli, provveditori, direttori di giornali, impresari, tre quattro volte l’anno, una volta al mese in periodi critici, si trovavano al De Filippi per scambiarsi opinioni con le gambe sotto il tavolo. In buona parte erano personaggi considerati di casa. Il convitto è stato, infatti, il primo approdo di decine di pubblici dirigenti, anche magistrati e medici. Spediti a Varese da un concorso, ci arrivavano con in tasca l’indirizzo sicuro per vitto e alloggio. Da lì ricevevano istruzioni utili a conoscere la città e l’istruttore era monsignor Tarcisio Pigionatti, un ex cappellano militare impareggiabile regista del film che vi stiamo raccontando. Egli apriva a tutti le porte ecclesiastiche  con la forza d’una fede mai sbandierata e spalancava quelle laiche con l’autorevolezza dell’uomo nato col carisma nel sangue. Ma ciò che distinse da altri convitti il De Filippi fu una caratteristica che oggi appare profetica: l’internazionalità. Quanti studenti africani hanno soggiornato lassù per imparare i segreti dell’industria italiana, specialmente fabbriche tessili, più tardi, in misura mirata, quelle aeronautiche. La parola d’ordine non era integrazione, bensì alleanza che aiutava il continente nero e serviva alla nazione italiana. “Dire che i primi africani a Varese siano stati incontrati grazie al visionario Pigionatti è fotografare una verità”, racconta l’avvocato Fabio Bombaglio.  “Monsignore intuì la convenienza della provincia industriale a formare competenze e a esportarle. Tu hai la materia prima, le piantagioni di cotone e lino; io ti insegno a valorizzarti secondo le regole del lavoro italiano. Non ti trattengo, ti riamando a casa con informazioni utili nella tua terra. Quello che si sarebbe dovuto fare col colonialismo. Pigionatti tesseva alleanze con dirigenti scolastici di allora, in particolare col preside dell’Itis Italo Roncoroni. E il De Filippi diventò crogiuolo multietnico.  I ragazzi arrivarono prevalentemente dall’Africa Orientale, etiopi, libici e somali”. Il risultato di questi scambi non era immediato e nemmeno sicuro. “Don Pigio” gettava semenza italiana in campi sconosciuti. Non si curava dell’originalità del suo agire, semplicemente formava nostri ambasciatori. Oggi abbiamo il Piano Mattei: bisognerebbe far sapere a Giorgia Meloni che un prete se ne inventò uno Varese mezzo secolo fa. Giovanni Baggio, preside e rettore, ha rintracciato un documento nel quale Pigionatti, sportivo come suo nipote Giancarlo, collega giornalista, snocciola la sua formazione dagli anni ’50 in poi, tutti sacerdoti naturalmente, alcuni docenti di teologia nei seminari lombardi: Ernesto Codini, Giorgio Colombo, Giancarlo Pedrazzini, Gino Rigoldi che poi diventò cappellano del carcere minorile Beccaria. Infine l’allenatore, don Angelo Manzoni, che era anche economo, insegnante e all’occasione dispensiere. Bombaglio racconta questo aneddoto: “Un ragioniere di banca finito a fare il clochard, un certo Gervasini, tirava spesso per la giacca don Manzoni. Questi gli dava qualche soldo. Poco. E quello sbraitava: allora io mi faccio ebreo”. Il De Filippi ha avuto alunni di nome, da Dino Meneghin a Guido Borghi, secondogenito di Mister Ignis. Il quale, a differenza di Manzoni, era dei manica larga: finanziamento di cento milioni di lire al De Filippi che apparve ben attrezzato  al presidente del Consiglio Aldo Moro venuto a inaugurarlo nel novembre del 1967. Gli mostrarono saloni, ristorante, camere e a un certo punto Moro esclamò: “Ma questa è un’Arca di Noè”. Poi sparì. Lo ritrovarono seduto e assorto nella cappella del convitto. In tv scorrevano le immagini di Giovanni Paolo II sotto la neve a Sarajevo e “don Pigio”, classe 1914, se ne stava rincantucciato in un angolo buio della sua stanza d’ospedale a Varese. “Mi sento come uno che deve nascondersi. So, ma devo fingere di non sapere fino a quando sarà fatta la volontà del Signore”, disse al cronista amico.   L’intrepido cappellano delle campagne di Grecia e d’Albania non poteva indietreggiare davanti al male; lo doveva affrontare, combattere, anche irridere. Era un alpino. Quando, poche settimane dopo, l’11 maggio 1997 alle 16,30, una domenica, “la volontà del Signore” si compì, non solo la città cattolica prese atto che cadeva dal piedistallo un monumento religioso e civile.  C’era la DC quando Monsignore cominciò a progettare il suo convitto, governava la Lega a Varese il giorno in cui reclinò il capo e consegnò l’anima al suo Dio.  Pigionatti uomo muoveva da manager, non sempre ben consigliato. Tra gli amici qualche ruffiano. Anche Gesù tra i dodici uno tradì. Questo gli procurò fastidi, critiche, anche grane. Ma quello che fece, favori compresi, lo lasciò a Varese. 

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