Varese oscurata?
- Gianni Spartà
- 05/02/2025
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No, ha fatto tutto da sola
Uno dei passi centrali del discorso di Giancarlo Giorgetti al plenum di qualche giorno fa a Villa Recalcati è sembrato il seguente: Varese è oscurata dalla grande Milano. Ha di tutto e di più, operosità, genio, bellezze naturali, ma il gran sole della metropoli l’ha accecata negandole, fin qui, la ricerca di nuove identità. Altro non poteva fare un ministro, per giunta di casa, se non lanciare un sasso con l’intento di muovere lo stagno. Diversamente avrebbe dovuto osservare che negli ultimi trent’anni più che a un’eclisse abbiamo assistito ad atti di autolesionismo, che abbiamo fatto tutto da soli, spegnendo noi luci. Ecco come. Un territorio ricchissimo ha rinunciato al controllo delle sue banche e da allora molto è cambiato; ha mandato nell’orbita mondiale le proprie industrie, ma raramente ha creato sistemi; ha fondato due università, ma fatica a metterle in rete (c’è ancora tempo); ha accettato lo shopping forestiero di proprie aziende quando sarebbe stato possibile, guardando oltre il giardino, attivare in proprio operazioni di pronto soccorso e salvataggio. E infine ha subito la decadenza di pubbliche istituzioni che alla voce attrattività di un territorio rivestono un ruolo fondamentale. Questa fetta di nordovest possiede ospedali che hanno grandi teste, spesso eccellenze, ma se questi corpi perdono le braccia è un brutto guaio. Abbiamo tribunali con encomiabili tradizioni ma se per tenere aperti servizi essenziali c’è bisogno del volontariato di carabinieri in congedo qualcosa non funziona. Altro capitolo i collegamenti ancora insufficienti, proprio con Milano e col resto d’Italia. Lo potevi tollerare quando Varese era diventata un cul-de-sac. Oggi è una stazione intermedia su linee europee che sfiorano la grande Malpensa e allora mettere il dito nelle sette piaghe giova. Lasciamo perdere Milano dove tre sindaci in trent’anni hanno avuto il privilegio di veder rinascere la Scala, nascere una nuova Fiera, ospitare l’Expo, inaugurare le torri che hanno cambiato il profilo supremo della metropoli. Tutte le volte che spuntava un grattacielo, dritto o storto, bisognava installare qualche metro più in su, in cima a qualche antenna, il facsimile della Madonnina per non offenderla. Pensiamo piuttosto a come non restare nani vivendo all’ombra di un gigante revisionando per prima cosa le vicende di un lembo di Lombardia che ha avuto in sorte di riconoscersi non in una sola città, ma almeno in due, equivalenti per ruolo e anagrafe: Varese e Busto Arsizio. Una fu premiata da Mussolini, l’altra no e da quel momento s’alzò un muro. Bisognerebbe che i sindaci futuri prendessero in considerazione l’idea di nominare assessori ai rapporti reciproci: quello di Varese con il suo omologo di Busto e viceversa. Istituzionalizzando l’obbligo di confrontarsi, come fa il governo per il rapporto col parlamento, nascerebbe la vera nuova identità di una provincia troppo importante per precipitare nelle classifiche. Poi c’è il problema della consistenza abitativa: un capoluogo è degno di questo nome se ha una popolazione superiore ai centomila abitanti. Varese è in discesa libera, Busto l’ha superata, non abbastanza. Aggregare, fondere, compattare piccoli comuni attorno a due città più grandi vuol dire tagliare sprechi, asciugare poteri solo di facciata, aumentare la massa critica fiscale. Bastano un referendum e una legge regionale per modificare quel che immutabile non è. Prendano nota, se vogliono, gl’inventori della “Lombardia che vorrei”, scenario del meeting con Giorgetti. Da queste parti abbiamo 139 municipi, 100 sarebbero sufficienti. Ed ecco servita, per concentrazione, la Grande Varese, ma anche la Grande Busto, volendo. Ed eccolo il serio confronto con Milano. Coraggio!