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Milano, extra omnes

  • Gianni Spartà
  • 03/05/2025
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Il grande escluso

Si saranno già parlati nei viali del Paradiso Sant’Ambrogio e Francesco, il veterano e il nuovo arrivato? Forse sì: immaginiamo un grande abbraccio tra loro. Escludiamo invece il “chiacchiericcio”- parola cara a Bergoglio - sul fatto che per la prima volta dopo 150 anni Milano resta fuori dal Conclave, pur essendo capitale della diocesi più grande del mondo. La questione appare minima rispetto agli orizzonti della Chiesa universale: stanno arrivando elettori dai cinque continenti. In ogni caso nessuno, nemmeno il prefetto romano che si fece vescovo oserebbe imputare alcunché al Papa appena scomparso. Almeno in questi giorni. E tuttavia l’orgoglio ambrosiano si sente laicamente ferito. Ma come? Nella Cappella Sistina entrerà Como col cardinale Oscar Cantoni, promosso proprio da Francesco, e non ci sarà Mario Delpini, eccellenza lombarda, capo di duemila preti, novemila religiosi, mille e cento parrocchie, due seminari, rimasto arcivescovo? Mai sapremo se i due padri venerabili, lassù, si saranno detti qualcosa in proposito. E se lo sapessimo, la traduzione nel linguaggio terreno sarebbe improvvida.  Fatto è che nel Conclave del 2013, quando dal camino della basilica romana uscì fumo bianco per annunciare l’elezione dell’uomo venuto “dalla fine del mondo”, c’era Carlo Maria Martini, tra l’altro papabile. E prima vi sedettero, nell’ordine, Ildefonso Schuster, Giovanni Battista Montini, Giovanni Colombo, Dionigi Tettamanzi, Angelo Scola, tutti cardinali milanesi. Stavolta sedie vacanti, però abbiamo avuto papi il bergamasco Roncalli, il bresciano Montini ed è bresciano anche il decano del Sacro Collegio Giovanni Re che ha appena celebrato i funerali di Begoglio. Questo per dire che Ambrogio ha sempre avuto il vento a favore nel palazzo apostolico. Vedremo che cosa accadrà dopo il 7 maggio. Intanto mi piace ricordare l’Habemus Papam del 1963 quando un varesino, don Pasquale Macchi, chiamato d’urgenza a Roma la mattina del 21 giugno, assistette da testimone privilegiato all’esordio di Paolo VI. Suo segretario particolare quando questi era arcivescovo a Milano, lo rimase a Roma per quindici anni, tra i più travagliati nella storia del Novecento. In una rara esternazione, egli raccontò come andarono i fatti: «Lo incontrai lungo il tragitto verso la loggia della Basilica di San Pietro, da dove avrebbe impartito la benedizione Urbi et Orbi. Mi prostrai davanti a lui che subito con dolcezza mi disse: ha visto che cosa mi è capitato? E poi soggiunse: la mia prima benedizione è per sua mamma. Il gesto dice molto della sua delicatezza e della sua profonda sensibilità: non lo dimenticherò mai». Ma c’è poi un episodio che lega don Pasquale Macchi e il “suo” Papa, direttamente a Francesco. Egli doveva scegliere il calco dell’anello piscatoio, simbolo millenario del potere papale, tra una serie di campioni che gli avevano portato a Santa Marta. Li visionò e non ebbe esitazioni: volle quello che era stato al dito di Paolo VI e che Macchi, insieme con altri oggetti, aveva donato al cardinale Giovanni Re. Fece solo un’aggiunta: “Non fondetelo nell’oro, lo voglio così com’è: grezzo”. Montini fu malato come Francesco e Giovanni Paolo II negli ultimi anni anche se la sua sofferenza non ebbe risalto mediatico. C’erano meno televisioni, non c’era internet, e tuttavia i dolori, la febbre persistente, i continui controlli medici resero penosa la sua esistenza fino alle 21,40 del 6 agosto 1978: “Se ne andò recitando il Padre Nostro con voce debolissima e in quell’istante la sua vecchia sveglia si mise a suonare”, scrive Macchi nelle sue memorie. “Il mattino di quel giorno, vedendo che si era fermata, l’avevo caricata spostando inavvertitamente le lancette sulle 21,40. Quel suono che per una vita aveva svegliato il Papa, quella sera, simbolicamente, segnò per lui l’alba del giorno che non tramonta mai”.

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