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Ultrà della vita

  • Gianni Spartà
  • 25/10/2025
  • 0

Mario Melazzini

L’ho appena incontrato nel suo ufficio di direttore generale del Welfare a Palazzo Lombardia. Il tempo di uscirne con in mano un suo libro, di leggerne alcuni capitoli in treno e conosco l’uomo: medico, malato di SLA, ultrà della vita al punto da considerare la malattia una forma di salute mentale. Incassato il pugno allo stomaco, tento di andare controcorrente su certi temi: diritto di morire, libertà di vivere, eutanasia, accanimento terapeutico. In tutto questo c’è chi vede una luce illuminare nello stesso tempo la sconfitta del corpo e la vittoria dell’anima. Quanti casi nel mondo come quello di Mario Melazzini, classe 1958, manager pubblico, un passato in politica, consigliere di istituti di ricerca: la sedia a rotelle, il capo sorretto da una protesi, la progressiva mancanza di autonomia. Ciascuno di noi nella sua cerchia ha un esempio di resilienza alla disabilità. A me è caro Roberto Feraboli poliomielitico dalla nascita, tetraplegico da quando un ictus pensava di farlo fuori e lui, che oggi ha 75 anni, lo ha mandato a quel paese. Al vecchio compagno di scuola dice sempre: “Se le facoltà cognitive non sono intaccate, è bello invecchiare anche su una sedia a rotelle”. Ma il medico con la SLA è un uomo con un ruolo pubblico, per giunta nel comparto salute, e allora il suo caso diventa un drone pacifico in volo sulla pianura della speranza. A costo di apparire cinici, ipocriti, provocatori l’occasione che egli offre non va sprecata. Se la vita è bella non solo nei film non ci può essere derby tra dolorismo cristiano e bioetica laicista: bisogna segnalare modelli in attesa che la scienza buchi il muro dell’imponderabile. Sì, per chi crede esistono i miracoli e Melazzini crede. Ma nel suo libro dice che se ne aspetta uno solo, per tutti: la serenità, la consapevolezza del limite, soprattutto la forza e le intuizioni di chi studia questo genere di guasti genetici. Piergiorgio Welby scrisse all’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano che “morire gli faceva orrore”, prima che un tribunale autorizzasse un medico a staccare la spina. I genitori di Francesco, un ragazzo neuro-vegetativo di Busto Arsizio, si rivolsero a papa Benedetto XVI il venerdì santo del 2011: “Siamo felici di stare con lui perché abbiamo fede e ci siamo convinti che sia vivo”. Esperienza da cronista nella “stanza del figlio” di due persone semplici a Daverio. Il “morto” stava immobile in un letto matrimoniale attaccato a un respiratore e a una sonda che lo alimentava: gli occhi chiari aperti, un cagnolino gli scodinzolava attorno. Si chiamava Romolo, un furgone col quale distribuiva il pane era stato sepolto a Rescaldina da un carico di sassi caduto dal rimorchio di un camion, schiacciandolo. Coma irreversibile. In quel tempo sui media si parlava del dramma di Eluana Englaro la ragazza il cui padre chiedeva con coraggio di non essere lui a dover decidere: voleva la pronuncia dello Stato, di un giudice, e la ottenne segnando una tappa giuridica sul cammino della civiltà del Paese. Ne parlai con imbarazzo al papà e alla mamma di Romolo. Risposta: “Noi non abbiamo mai pensato a quella cosa lì. Se non ci sei dentro non puoi capire”. Il dg del Welfare di una regione come la Lombardia capisce, pensa, ne scrive, ma soprattutto riflette su che cosa si può e si deve per questi figli di un dio minore che ogni giorno in silenzio, tra tanti gesti di solidarietà, diversa dal pietismo, osservano trascuratezze nel rapporto sano/malato. Perché ancora tante barriere architettoniche nelle nostre città? Perché molti sono liberi di distruggere, di costruire a capocchia, e pochi, che la vita se la tengono stretta, trovano ostacoli quotidiani negli uffici, nelle fabbriche, persino nelle scuole? Perché in dodici anni di pontificato Francesco ha declinato in cento modi la parola “scarti” e come per le guerre ha ottenuto commozione nell’immediato, disinteresse sulla lunga distanza? Quella, forse l’unica, che porta al riscatto culturale collettivo.

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