Anastatsi è morto, il Varese pure
- Gianni Spartà
- 26/01/2020
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Tristezza doppia
C’era un vecchio tifoso con gli occhi lucidi ai funerali di Pietro Anastasi. Scattava fotografie alla bara per terra davanti all’altare, guardava la vedova e i figli di cui è vicino di casa e, se è possibile, era affranto come loro. A un certo punto si è girato verso le persone accanto a lui e ha messo il dito nella piaga guardando la basilica da cima a fondo: “Tutta questa gente una volta era sulle tribune dello stadio, la domenica. Adesso la vediamo ai funerali. Che peccato”. Già. Doveva andarsene Anastasi, bandiera degli anni d’oro biancorossi, per riflettere su che cosa ha avuto la città grazie allo sport, i suoi gladiatori, i suoi mecenati, e che cosa ha perso, crediamo per sempre. “A differenza delle altre squadre in cui ha giocato, oggi il Varese calcio non è neppure in grado di fare necrologio per il suo campione. Non esiste più, è fallito”, ha scritto sulla Prealpina Alfredo Ambrosetti aggiungendo al lutto nazionale, una nota di tristezza locale. Perché è successo tutto questo? Perché lo stadio intitolato a Franco Ossola, un grande del Torino scomparso a Superga, è diventato un mausoleo? Perché una società di calcio negli ultimi dieci anni ha fatto gola solo a personaggi non all’altezza, in qualche caso impresentabili? Non ne possiamo di discutere in questa sede. Qui possiamo ricordare il 1967, l’anno del Varese corsaro che affondava le corazzate, l’anno di Pietruzzu Anastasi, scovato per combinazione in Sicilia: il general manager Alfredo Casati, avendo perso l’aereo da Catania, andò a vedersi una partita di dilettanti e scoprì quel ragazzo svelto come un gatto nel dribbling, potente come una pantera nel tiro in porta. Se lo portò a Varese e il campionato successivo fu da cineteca: battuta l’Inter a Masnago con un gol di “magia” Mereghetti, battuto il Milan (2 a 1) con capolavoro del terzino destro Sogliano, umiliata la Juventus, 5 a 0 con una tripletta di Anastasi. Negli spogliatoi collasso emotivo di Heriberto Herrera, il mister della Vecchia Signora, a Torino Giovanni Agnelli furioso per l’imbarazzante disastro. La squadra di Giovanni Borghi incantava l’Italia calcistica con il segreto della semplicità. L’allenatore era Bruno ex mezzala del Bologna. Raccontò qualche anno più tardi: “Un attacco con Leonardi, Tamborini, Anastasi, Mereghetti e Vastola faceva la sua figura. Poi avevamo due grandi terzini, Sogliano e Maroso. Puntavamo sul collettivo, senza mai scoprirci: era vietato subire il contropiede. Borghi ci portava in ritiro dal giovedì al lunedì, una tortura. In compenso organizzava viaggi-premio, per esempio a Montecarlo e in Abissinia, dove ci allenammo con Abebe Bikila”. Il giorno più bello della sua esistenza terrena il cumenda lo visse una tiepida domenica di primavera del 1975, pochi mesi prima di morire. Tornava a vedere una partita allo stadio Franco Ossola, ci tornava con addosso i segni di una malattia giunta al sommo della crudeltà, e una standing ovation nella tribuna dove solitamente vanno a sedersi i notabili della città salutò con affetto l’uomo al quale una certa Varese, per colmo di gelosia, non aveva perdonato l’irresistibile ascesa. Emozione alle stelle, omaggio riconoscente all’industriale che, prendendosi tutto, aveva avuto l’accortezza di ridistribuire parti non trascurabili, innalzando quartieri operai, finanziando case di riposo, mantenendo alla sua corte calciatori, pugili, ciclisti e cestisti come fossero gli attori di un circo.