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Il "cecato" di Gaggiolo

  • Gianni Spartà
  • 22/06/2020
  • 0

Massimo Carminati

Il solito gioco di prestigio della giustizia in Italia: una condanna a vent’anni in primo grado si riduce a quattordici anni in appello. Fin qui buon per il reo. Senonché il processo va in Cassazione, la quale ritiene sia stata erroneamente contestata all’imputato un’aggravante mica da ridere: l’associazione a delinquere di stampo mafioso. E siccome gli alti giudici nel merito della vicenda, per legge, non possono entrare, ordinano di farlo ai loro sottoposti con un altro dibattimento. Il quarto in un Paese in cui i gradi di giudizio, a parole, sono tre. Andreotti diceva ne bastassero due finché non è capitato a lui di sedersi davanti a una corte. E che cosa succede poi? Che il tempo passa, che i termini di carcerazione scadono, che il protagonista della storia- Massimo Carminati, non uno qualunque- torna libero e bello. I fotografi lo immortalano con una borsa a tracolla mentre pensieroso s’allontana in un viale lasciandosi alle spalle la prigione di Oristano. E come finisce la storia? Indovinate: il ministro Bonafede invia gli ispettori perché i conti non gli tornano. A noi sì: ci siamo abituati. Anzi rassegnati. All’avvocato dell’ex detenuto pure: “Il mio cliente aveva pieno diritto di uscire”, sibila ai microfoni. Morale: il maledetto Covid passerà, più che una certezza è una speranza. La malagiustizia no: più che una speranza, è una certezza. Ora, dovete sapere che la carriera criminale di Carminati cominciò in provincia di Varese. Era un giorno nebbioso giornata di Pasquetta del 1981. Un commando a bordo di una Renault 5 s’avvicinò alla rete di confine, a poca distanza dalla dogana presidiata dai finanzieri di Gaggiolo. Agenti della Digos, avvisati da Roma dove qualcuno aveva “cantato”, intimarono l’alt, una-due volte. Niente. Tre individui scesero dall’auto, uno tentò di mettersi al riparo arrampicandosi su una rete che delimita la frontiera.  Partirono raffiche di mitra che lo fermarono, ferendolo a un occhio. E da allora Carminati è detto “il cecato”, un neofascista mai pentito, un fiero, fierissimo soldato dei Nar , sospettato, allora,  di sapere qualcosa delle bomba esplosa il 2 agosto del 1980 alla stazione di Bologna. Voleva lasciare l’Italia con un bottino di dollari, franchi svizzeri, diamanti. Dove avesse intenzione di andare non si chiarì mai. Dalla Svizzera, forse in Sud America. Certo è che c’era un piano, ben orchestrato, nei mesi in cui le procure indagavano sulla trame nere di Terza posizione. “Siamo arrivati in tempo”, spiegò in una conferenza stampa l’allora questore Scotto. Sette tra ufficiali della Digos di Varese e di Roma furono indagati, processati, amnistiati per la sparatoria. Ma le domande di oggi sono due. La prima: come ha fatto un sovversivo arrestato a 23 anni a diventare amico della banda della Magliana e poi il pezzo grosso di un clan di malavitosi e politici che faceva soldi a Roma con i campi rom e gli extracomunitari. Cioè con i diritti civili e sociali che, maneggiati da abili prestigiatori coperti da ruoli pubblici, diventavano benzina del guadagno illecito. La seconda: come passerà il tempo Carminati fuori dal carcere. Noi un’idea ce l’abbiamo: scriverà qualche libro e quanto prima lo vedremo in tv da Giletti o da Bruno Vespa.  

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