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La bufala del colpo di Stato

  • Gianni Spartà
  • 16/05/2021
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1964, tutta un’altra storia

Ci sono capitate due fortune nella vita professionale: intervistare “personalmente di persona” Indro Montanelli, novanta minuti di  prosa epica che equivalsero alla lettura di almeno dieci libri; farlo il giorno prima che sul Giornale, non più suo ma di Berlusconi, uscisse in prima pagina il fondo fatale: nemici mai, caro Silvio, saremo fratelli separati. Il Maestro annunciava l’addio, già nell’aria in quel 1993: va bene turarsi il naso e votare DC, ma un toscanaccio liberale primo violino nell’orchestra di Forza Italia, neanche per sogno. Serve il preambolo per parlare di Mario Segni, il figlio adottivo che Indro non ebbe. Il padre putativo lo immaginava argine all’esplosione di Sua Antenna. Lo sostenne in decine di articoli per via dei suoi referendum riformisti, ne incoraggiò la metamorfosi da mite studioso a leader politico, partecipò a qualche suo comizio. Ma nessun editoriale, seppur firmato dal giornalista più letto d’Italia, poteva competere con le televisioni del Cavaliere. L’argine si sgretolò prima d’essere innalzato. Fine di quella storia, non di un’altra che Montanelli, sarcastico sulla capacità degl’italiani d’organizzare colpi di stato, avrebbe letto volentieri oggi. Segni infatti ha appena pubblicato un libro per onorare la memoria di suo papà Antonio messo in croce dall’Espresso, cioè dalla sinistra, come complice del “piano Solo”. Lui, un presidente della Repubblica di fede antifascista, in combutta col generale dei carabinieri De Lorenzo per rovesciare gli equilibri di una democrazia. Figuriamoci. E infatti il libro s’intitola La madre di tutte le fake news. Nessun complotto al Quirinale: ora che il governo ha desecretato gli atti, omissis compresi, possiamo esserne certi. Due sentenze cancellarono il sospetto eversivo, l’ordine pubblico non corse mai alcun pericolo, lo giurarono nei tribunali due ministri, un ex premier, sedici generali e sette colonnelli. II “tintinnar di sciabole”, immagine attribuita a Pietro Nenni che la smentì, sarebbe stato bene in bocca a Totò, ma in quel 1964 nessuno proclamò stato d’allarme, sorveglianza del nemico riformista, sua deportazione in Sardegna. L’Espresso di Barba Papà Eugenio Scalfari e dell’autore dell’inchiesta Lino Jannuzzi furono condannati a 17 e 16 mesi di reclusione e a pagare i danni. Senonché lo scandalo giornalistico e giudiziario aveva travolto il Colle e Antonio Segni, malato di trombosi, si era dovuto dimettere. Beh, che cosa avrebbe detto il Maestro? Probabilmente quello che annotai nel taccuino e che ripresi in un libro, Se lo dice lei, a proposito dei poteri occulti e di un Paese nel quale non si viene mai a capo di nulla : “Gusto degli italiani di aggrovigliare le cose. I terroristi persero perché difendevano ideali, i complottisti e i mafiosi resistono perché proteggono interessi. Al brigatista pentito io credo, al mafioso pentito no. Mi dà fiducia Curcio, non me ne dà Buscetta”. L’idea del libro è venuta a Mario Segni (vuole tornare in campo?) quanto scoccavano i quarant’anni dal sequestro di Aldo Moro. Vai a capire il nesso, che deve esserci. Mariotto doveva cancellare la bufala dimenticata, come figlio e come italiano. E s’accorse durante le celebrazioni dell’evento più oscuro della vita repubblicana, che le grandi firme del giornalismo non avevano modificato la linea storiografica.  Allora si mise a fare ricerche fino a ricostruire nei dettagli il colpo di stato rivelatosi cumulo di fandonie per dimostrare un teorema: l’interpretazione passata alla storia per il vicolo largo della cronaca si sedimenta definitivamente  nelle coscienze collettive; la mistificazione di una realtà resiste al cambio delle epoche; le sentenze dei giudici si dimenticano subito; gli errori mai ammessi allora, negli anni ’60, danneggiarono il centrosinistra, al punto che Moro, molto più avanti, s’inventò il compromesso storico non sapendo che lo avrebbe consegnato ai kalashnikov delle Brigate Rosse. E oggi il populismo furoreggia non solo nella destra perché fabbrica voti. Varese fu teatro di una vicenda analoga alla fine degli anni ‘70 quando Camilla Cederna venne condannata dal tribunale penale e rovinata economicamente da quello civile per il libro Giovanni Leone la carriera di  un presidente stampato da una tipografia di qui. I processi per diffamazione si celebrano nel luogo in cui un volume esce dalle rotative. Anche in quel caso un capo dello Stato costretto dimettersi perché accusato addirittura con impeachment, prima sull’Espresso, poi in quel saggio della celeberrima inviata per aerei della Lockheed comprati dall’Italia mediante giro di tangenti. Anche in quel caso, si consoli Mario Segni, fake news che diventano storia. A riabilitare Giovanni Leone provvide un libro-inchiesta di Piero Chiara.      

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