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Il Dna senza certezze

  • Gianni Spartà
  • 19/03/2025
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Delitti irrisolti

Huston abbiamo un problema: l’Italia culla del diritto si rivela la tomba della sua certezza. Magari succede più di quanto non sembri nei tribunali, ma quando il fenomeno investe processi che sonno stati celebrati più in piazza che in aula, il popolo in nome del quale la giustizia è amministra non ci capisce più nulla. Da qualche settimana ha rimontato le tende il circo del delitto di Garlasco, così si potrebbe dire se non ci fosse di mezzo la morte violenta di una ragazza di 23 anni appena laureata, accompagnato dal dolore atroce della sua famiglia. Tutto è ricominciato da capo per quello strano oggetto del desiderio investigativo chiamato test del Dna. Che cos’è? Un’indagine genetica che ha sostituito il fiuto poliziesco. Serve a scrutare in un laboratorio impronte trovate sul corpo di una vittima e a compararle con la tessera biologica del presunto assassino. E’ come prendete due codici a barre: se coincidono, ecco la prova regina a carico dell’autore di un omicidio. Semplice nell’immaginario collettivo costruito da noi giornalisti, complesso nella realtà. Al punto che Alberto Stasi potrebbe essere non colpevole della morte di Chiara Poggi. Peccato che egli stia scontando la condanna a sedici anni inflittagli nel 2015 dopo un’altalena di processi. E’ detenuto a Bollate, di giorno fa il contabile in una società informatica. La pena è anche rieducazione. Non ha ucciso (solo) lui la fidanzata? Vedremo dopo la sorprendente coda giudiziaria. Quello che abbiamo visto è che non sono stati Amanda Knox e Raffaele Sollecito a uccidere Meridith Kercher a Perugia; non è stato Raniero Busco a uccidere Simonetta Cesaroni a Roma; non è stato Stefano Binda a uccidere Lidia Macchi. Famosi delitti irrisolti nonostante l’utilizzo del Dna poliziotto. La giustizia degli uomini è fallace, quella che s’è affidata a esami di laboratorio, influenzata o deviata dal baccano mediatico, ha fatto cilecca in molte occasioni. Mette tristezza vedere ridotta a niente più che una fiction televisiva la sbandierata infallibilità dei Ris. E non perché se ne disconoscano scienza, coscienza, professionalità, passione investigativa, intendiamoci. Ma spesso a conti fatti sul campo sono rimaste due cose: le ferree convinzioni di pubblici ministeri sconfitti in camera di consiglio da imprevedibili assoluzioni e plastici con i quali Bruno Vespa ha sceneggiato dotte elucubrazioni di criminologi, sessuologi, archeologi forensi, medici legali. La realtà si è appalesata diversa dall’immaginazione, i giudici hanno smentito ciò che secondo la tecnica investigativa pareva scontato. Prendiamo l’omicidio più vecchio, quello di Simonetta Cesaroni, 17 agosto del 1990. La “verità” sancita da una condanna a 24 anni di carcere nel processo di primo grado è stata rovesciata da perizie secondo le quali negli indumenti intimi di Simonetta erano presenti non una, ma tre impronte genetiche. Troppe per superare il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato. Per dire che il caso Garlasco non è isolato. Che cosa succede? Pasticci nelle indagini, errori umani o inaffidabilità di tecniche investigative che compiendo continui passi avanti spiazzano le sentenze, addirittura le capovolgono seminando sconcerto nella pubblica opinione. Pare di capire che con le armi semplici dell’intuito o della soffiata tempestiva, commissari e marescialli arrivavano a incastrare feroci assassini. Col Dna incapsulato nel chiuso di una provetta si alimentano certezze e si raccolgono delusioni. Meglio un assassino libero che un innocente dietro le sbarre, siamo d’accordo. Ma se l’eccezione diventa regola qualcosa non funziona. Delle due l’una: o le aspettative sono esagerate o il ricorso sistematico ai test concentra ricerche sull’eventuale disperdendo gli indizi sull’evidente. L’atroce fine di Yara Gambirasio è stato un capitolo senza precedenti: polizia e carabinieri hanno avuto in mano il Dna di diecimila persone che s’erano prestati a un prelievo di sangue per fugare l’incubo di una comunità. Massimo Bossetti insiste nel dire che non è lui l’assassino. Caso veramente chiuso? Un delitto si risolve nelle prime quarantotto ore, dicevano i vecchi detective, oppure ci si rassegna. Fare a meno della scienza? Certamente no. Torna alla mente il fantasma di Helibronn: una donna si era macchiata del sangue di 40 vittime. Di lei nessuna traccia se non i resti di un Dna, sempre lo stesso. Non era il suo ma di un operaio austriaco che produceva e recapitava alle polizie i tamponi per la raccolta dei reperti.  

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