L’autostrada della seta
- Gianni Spartà
- 17/06/2021
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Riso e spaghetti
E adesso che è finita la sceneggiata atlantista di Biden, adesso che Draghi gli ha giurato fedeltà finché morte non li separi, nei rapporti tra l’Italia e la Cina si torna a fare i conti con l’oste. Il quale ci tiene d’occhio da un bel po’ e noi lasciamo che guardi perché ci conviene: diciamolo. Dai tempi di Mao vagano alle nostre latitudini incaricati d’affari col compito di coniugare comunismo e consumismo. La via della seta è un’autostrada a sei corsie nei due sensi di marcia dagli anni ‘80, qui al Nord gli industriali possono partecipare all’indignazione per i metodi dittatoriali di Pechino e devono seguire con senso di responsabilità le indagini sul laboratorio di Whuan dal quale forse è partita la rovina della peggiore pandemia dell’era moderna. Ma quando si concentrano sul portafoglio ordini delle loro aziende grandi e piccole non possono trascurare che, prima del cataclisma sanitario, l’Italia era debitrice del 3 per cento delle sue esportazioni verso il Celeste Impero; che i più bei nomi della chimica e della meccanica hanno laggiù fabbriche e uffici commerciali; che col metodo cinese avremmo già la Tav sull’asse Torino-Lione, un Mose efficiente a Venezia, forse anche il Ponte sullo Stretto. Lo diceva Giuseppe Zamberletti che, presiedendo la società che doveva unire Scilla e Cariddi, aveva intavolato trattative con i mandarini. Offrivano chiavi in mano materie prime e ingegneria vedendo nella Sicilia la base logistica ideale per le merci in uscita dal canale di Suez, su navi portacontainer da far arrivare su ferro in quindici ore nei porti del Nord Europa. Nessuno ha più a cuore di Pechino il mare nostrum. Dunque Biden fa bene a temere l’espansionismo poco democratico del competitor cinese padrone del debito americano, ma l’assalto pacifico degli avanguardisti gialli sul fronte dell’economia europea, ramo grandi opere in particolare, non si fermerà. Anzi. Un ripasso di storia locale non guasta. Quando Flavio Sottrici all’inizio degli anni ’90 progettò la Liuc a Castellanza, volle che nel cortile della nascente università degli industriali ci fossero quattro piante di gelso fatte arrivare dalla Cina. Era un imprenditore del settore carta, aveva cultura, sapeva che questo angolo di Lombardia era legato a corda doppia da un filo di seta, specialità orientale. E aveva ben presente che sulla via di Marco Polo, poi percorsa da Vincenzo Dandolo cui Varese dedica una delle sue strade principali, le produzioni del Nord Italia aveva costruito una bella fetta delle loro fortune. Dopo l’unità d’Italia, le Camere di Commercio di Varese e di Como avevano uffici a Pechino. Quel filo è diventato un gomitolo sempre più dilatato. Non si è mai spezzato una volta e oggi attorno al porto di Shanghai il monopolio del riso è tallonato dall’emergenza degli spaghetti per le presenza di un fiorente distretto italiano.