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A scarpe in faccia

  • Gianni Spartà
  • 31/05/2024
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Benetton a Varese

Benetton si dimette da sé stesso perché i manager hanno nascosto un profondo rosso di 238 milioni di euro a lui che dei colori è un padreterno. Altri tempi quando il ragioniere della ditta tradiva la fiducia del cumenda, il quale aveva due strade: licenziarlo o perdonarlo. Magari la seconda conveniva a entrambi. Da vicino nessun è invulnerabile. Ma qui parliamo del Doge di una corazzata che spazia tra moda e autostrade, purtroppo anche di ponti, di una delle ultime dinastie rimaste italiane nella linea Maginot dell’impero industriale d’Oriente: gli occhiali ad Agordo, le maglie a Ponzano Veneto. La vicenda dunque ha fatto rumore perché a volerlo è stato Benetton con una intervista-scandalo. Tutto si è già risolto: assorbita la sfuriata giornalistica, i sudditi “infedeli” asciugheranno le perdite e il sultano novantenne si sarà tolto di sputtanarli prima di ritirarsi. Ora, nominare Benetton da queste parti significa parlare di colui che fece le scarpe a Varese, nel senso che gliele sfilò dai piedi acquistando, per poi arrendersi a chiuderlo, il celebre Calzaturificio, gloria della città. Correva l’anno dei mondiali di Paolo Rossi, il 1982: l’operazione fu fulminea e inattesa. Dopo un raid in Borsa, pilotato da uno scaltro azionista, la fabbrica delle migliori calzature dell’epoca, le più care, le più ambite, in poche ore cambiò padrone. La notizia si sarebbe sciolta in un nostalgico amarcord di vecchi operai, magari in qualche mea culpa ai vertici aziendali, cose inimmaginabili oggi col capitalismo familiare schiacciato tra l’incudine dei mercati e il martello delle multinazionali. Senonché nella catena dei negozi che il Calzaturificio di Varese aveva in tutta Italia, tra le migliori piazze, deflagrò una colossale svendita: scarpe di gran marca in vetrina a ventimila lire contro le cento-duecentomila del giorno prima. Gente in coda dall’alba al tramonto per tornare a casa con un paio di Zenith, il top di gamma. Fuori tutto e così sia. Treviso spiegava: nel magazzino abbiamo trovato merce non più di moda, inutile tenersela in casa. Varese rispose con una battaglia giudiziaria ingaggiata da un solido drappello di azionisti di minoranza tagliati fuori dalla scalata in Borsa. Per loro Benetton aveva azzoppato il patrimonio aziendale senza darne contezza ai soci. L’intensità di ricorsi, impugnative, denunce, persino ricusazioni di giudici, fece paragonare le scarpate volte a Varese al lancio di missili nel cielo di Segrate per il controllo della Mondadori. Lì in più ci furono arresti eccellenti. Mai visto nulla di simile nell’ancora quieto tribunale di piazza Cacciatori delle Alpi. A mano a mano che si snodavano udienze e assemblee cresceva il numero delle telefonate alle banche: ho titoli del Calzaturificio, me li avete fatti comprare voi. Li vendo o resisto? Interpretata a 40 anni di distanza la situazione era chiara: Benetton faceva maglie e jeans, delle scarpe non sapeva nulla, gli interessavano però i negozi del brand varesino, una settantina, ben distribuiti in tutto il Paese. Gli bastava cambiare l’insegna: Colors of Benetton, e accompagnare al suo destino un antico calzaturificio di fine Ottocento. Il mercato non faceva sconti: o ti chiamavi Timberland e seguivi la moda della scarpa casual o eri perdente. Come indorare la pillola a una città che si sentiva depredata del suo simbolo più caro? Re Luciano allentò i cordoni della borsa e sponsorizzò lo squadrone di pallacanestro rimasto orfano del leggendario marchio Ignis, Sulle magliette dei gladiatori del cesto si materializzò per anni la scritta DiVarese che era l’interpretazione moderna di una tradizione antica. La guerra delle scarpe si trascinò a lungo finché, com’è d’uso nel mondo degli affari, non si scelse il male minore per salvare la capra degli azionisti di minoranza, che furono risarciti, e i cavoli dell’azienda trevigiana, che, dopo alcune azioni di rivalsa, liquidò la fabbrica.  

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