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Goodmorning Vietnam

  • Gianni Spartà
  • 15/11/2025
  • 0

50 anni dopo

Sfolgorano a mezz’aria nel centro di Hanoi file di bandierine rosse con la stella gialla e la falce e martello dello stesso colore. Fanno molto Natale: il Natale del comunismo vietnamita che cinquant’anni fa uccise il drago americano.  Era il 30 aprile del 1975, polvere e afa: l’ultimo marine piegò in quattro la Old Glory a stelle e strisce e tenendola sotto braccio saltò sull’elicottero della vergogna in decollo dal tetto dell’ambasciata. Altro che l’allegro Goodmorning Vietnam delle radio che svegliavano i soldati sotto le tende. Era un Goodbye Saigon mesto, di dolore e morte: 58 mila ragazzi persi in una guerra combattuta da tutti, capita da nessuno. Dalle bandierine lo sguardo s’abbassa e inquadra un marchio in una vetrina illuminata da led: Rolex, perbacco. E là vicino un altro nome: Hermes. E un altro ancora: Dior. Fanno Natale anche loro: il Natale del capitalismo che Lenin e Mao vedevano come il diavolo, anche Ho Chi Minh se è per questo, ma qualcosa è andato storto. O dritto. Il mondo non ha memoria, vola dove capita, se ne frega del passato. Non c’è stata rivoluzione che col tempo non si sia arresa al potere dei soldi. Ma nemmeno c’è stato potere dei soldi che alla fine abbia livellato ingiustizie, accorciato distanze sociali, tolto i miserabili dal fango delle risaie portandoli nel paradiso del proletariato. Eccola la lezione del Vietnam mezzo secolo dopo: nulla quanto le guerre sbagliate frantuma la dignità degli uomini. Oggi Saigon si chiama Ho Chi Minh City. Resiste la leggenda dell’esile rivoluzionario col pizzetto sul mento, generano stupore da un bus a due piani in gita notturna gli esagerati grattacieli che hanno soppiantato le baracche. Una Dubai senza emiri. Il comunismo c’è ancora, eccome se c’è. Né baby gang in giro né spaccio di droga né furti ai viaggiatori. La pena di morte è stata abolita il primo luglio del 2025, per i crimini gravi resta pervicacemente in vigore. Sulla rivoluzione vietnamita mi regala un pensiero la guida turistica “Peppino”, nome guadagnato quando vendeva scarpe in Toscana: “Pago le assicurazioni per salute e scuola dei figli. A volte mi sento un po’americano”. E deve sentirsi un po’ vietnamita Trump se in Malesia ha detto che gli piacciono gli abitanti di questa striscia di sudest asiatico perché sono “dei combattenti”. Ai quali ha accordato dazi di favore per fare rabbia alla Cina. Lo “Zio” Ho Chi Minh riposa in una teca di cristallo dentro a un mausoleo vegliato da guardie in divisa bianca, il colore del lutto perenne. Corsero a imbalsamarlo specialisti sovietici che avevano sistemato la salma di Lenin. Da una caverna ispirò le manovre che portarono alla sconfitta dei colonizzatori francesi, poi, partendo da Nord, si diede alla cacciata degli americani. Conquistava le folle con la coerenza e il sacrificio. Nel museo di Hanoi conservano in suo equipaggiamento partigiano: la valigetta di fibra, il pettine, la ciotola per il riso. Ma anche i libri, la macchina per scrivere, la poltrona nella sua stanza con mobili in tek. Nei pressi di Saigon visito gli stretti cunicoli scavati nella terra dura a uso dei vietnamiti magri come acciughe: sono trincee coperte, niente a che vedere col cemento armato delle gallerie di Gaza. Pingui occidentali vi entrano e provano la sensazione dei sepolti vivi che si difendevano con trappole d’ogni genere. Quanti marines infilzati da lance acuminate mettendo i piedi su buche nascoste sotto le foglie. Aspetto fragile, sorriso mite, lo Zio Ho aveva tante definizioni: un Babbo Natale denutrito, sveglio quando gli altri dormivano, “un nemico del popolo che il popolo idolatrava”, disse John Kennedy quand’era ancora senatore.  Il suo urlo di battaglia: “Decisi a tutto”. Decisi a tutto come gli americani che usarono il napalm, le mine anti-uomo, l’Orange Agent, un defoliante alla diossina per sterminare nemici invisibili nella foresta. Tre generazioni viet hanno pagato con deformazioni inimmaginabili, se non le mostrassero fotografie appese nella stanza dei crimini di guerra. Vecchi carri armati e caccia in livrea da combattimento circondano questo  palazzo degli orrori in pieno centro a Saigon. Lì vicino c’è ancora l’Hotel Caravelle che ospitava i giornalisti mandati a raccontare il Vietnam tra gli anni ‘60 e ’70. Dettavano le loro cronache dalle cabine telefoniche in mogano nell’edificio della Posta costruito dai francesi. C’è la fila davanti alla celeberrima istantanea della bimba vietnamita che corre nuda su una strada: il napalm le ha bruciato i vestiti e la pelle. Si chiamava Kim Phùc, 9 anni, abitava in un villaggio colpito per sbaglio da un bombardiere sudvietnamita. La immortalò un reporter dell’Associated Press, Nich Ut, che vinse il premio Pulitzer dell’abominio smemorato. Cinquant’anni dopo in Medio Oriente, in Ucraina, in Africa sempre stragi di innocenti. Non è morto mai Erode. Notte di quiete in una delle baie più famose del mondo: Ha Long che significa “dove il drago scende in mare” sputando gioielli e giada, secondo una leggenda. Prendete i faraglioni di Capri, moltiplicate per mille ed ecco una spianata di isole calcaree, una volta scogli negli abissi dell’oceano, oggi montagnole galleggianti. Vanno e vengono vecchi battelli bianchi carichi di crocieristi che su agili scialuppe fanno visita ai pescatori. Vivono lì, nel buio in mezzo al nulla. Una ragazza sul suo smartphone sceglie una colonna sonora struggente: Sailing di Rod Stewart. In questo mare cinese nel 1979 arrivarono tre navi militari dall’Italia dopo dodici giorni di navigazione. Vennero a salvare 907 profughi vietnamiti in fuga dal terrore di un satrapo che per rieducazione comunista intendeva la tabula rasa delle coscienze, la cancellazione violenta di una cultura. Si chiamava Pol Pot, prese il potere in Cambogia, massacrò migliaia di contadini gettandoli nelle paludi tra i fiori di loto, i serpenti e le tartarughe. Centinaia le fosse comuni e i campi di sterminio come racconta il film britannico Urla del silenzio diretto da Roland Joffè. Folle di perseguitati saltavano su barcacce e prendevano il largo. L’unico governo in Occidente che reagì all’impasse delle diplomazie internazionali fu il nostro: lo guidava Giulio Andreotti. Pressato dal Papa e dai vescovi di Roma organizzò una spedizione affidandone la guida a Giuseppe Zamberletti. Eravamo capaci di questo quando Dio patria e famiglia con era un vuoto scioglilingua. L’Italia in mare con Andrea Doria, Vittorio Veneto, Stromboli per un’operazione umanitaria chiamata Boat People. Se ne dovrebbe parlare nelle scuole. Laggiù non hanno dimenticato. Mister Dat, 34 anni, ha studiato l’italiano alla Dante Alighieri di Hanoi. Non era nato nel 1979, ma suo nonno gli ha raccontato di quelle tre navi che vennero a strappare alla morte e alla fame i viet e quando porta in giro gruppi italiani li accoglie con una bandierina tricolore. Mani giunte sul petto, capo chino e una parola: grazie! Poi confida il suo sogno: fare il giro del mondo in sella a una Vespa.

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