l camiciaio dei vip
- Gianni Spartà
- 30/03/2020
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Giuseppe Leva
Non se n’è andato per una sciabolata del Gran Bastardo, ma il suo nome tra i necrologi in questi giorni drammatici, ha fatto pensare inevitabilmente al Coronavirus. Giuseppe Leva aveva lo stesso nome del fondatore di una celebre sartoria tra Ispra e Leggiuno specializzata nelle camicie. Nel dopoguerra chiunque si sposasse, si recasse a un appuntamento mondano, era fiero di indossare, con o senza cravatta sotto la giacca, quel capo con un marchio simbolo di distinzione ed eleganza. Dapprima il bianco era il colore unico, insostituibile, quasi una bandiera per l’uomo alla moda. Venne l’azzurro, infine la fantasia sempre trattata con uno stile inconfondibile. Giuseppe, insieme con i fratelli Alberto e Gianmaria e i cugini Augusto, Vittorio e Giuditta, fu titolare dell’azienda di famiglia fino alla cessione. Ce lo ricordiamo negli anni ’80 immerso in un laboratorio nel quali abili mani di abili cucitrici perfezionavano a macchina l’orlo di colletti e polsini. Lui diceva: “Siamo moda-dipendenti, la camicia del momento è una camicia strana, col collo di un colore e il resto di un altro. Molto ampia, di cotone o di lino. E noi ci dobbiamo adeguare inventando modelli, partecipando alle sfilate di Pitti. Guai a farsi trovare impreparati se i gusti subiscono poderose sterzate”. Una volta l’indumento poteva durare anni, se tenuto bene, perché a un certo punto, con un’operazione alla portata di mamme e mogli, si sostituivano le parti lise con polsini e colli di ricambio. Leva calcolava che una camicia aveva un’esistenza media di sei mesi. E ammetteva che l’eliminazione dei ricambi aveva lo scopo di far lievitare i consumi. S’intravedeva la crisi, spuntavano all’orizzonte i concorrenti stranieri, erano i primi segni dell’inevitabile crisi delle fabbriche di un tempo. I Leva avevano cominciato con i busti da donna a fine ‘800, poi avevano cavalcato il progresso. Mutamento di genere, confezioni in serie di camicie, un calcio al passato, cioè al capo tagliato e cucito su misura. A Ispra c’era la vecchia sartoria, artigianale ma moderna, a Leggiuno la tessitura che forniva le stoffe alla sorella. Anche pigiami nel campionario. Allora, quarant’anni fa, circa cinquecento dipendenti. Numeri impensabili oggi. Giuseppe Leva era un uomo timido, gentile, in certi momenti appariva quasi indifeso. Gli era pesato, come a molti della sua generazione, l’abbandono del posto di comando nell’azienda di casa. Al Rotary Varese, ci cui era socio, spesso parlava di suo padre Giordano che era stato presidente dell’ospedale di Circolo e aveva lasciato un buon ricordo della semenza sparsa nei panni del pubblico amministratore al servizio di una comunità. L’ammiraglia, cioè l’opificio originario, aveva il marchio Letra. La produzione negli anni d’oro sfornava 5-6000 capi al giorno. Ma l’Italia stava diventando una grossa importatrice di camicie fabbricate nell’Estremo Oriente e la bussola della moda segnava una brusca giravolta: dal classico al casual, ai colli con due, a volte con tre bottoni, fino al modello slim, una sorta di corsetto di contenzione.