Un cerotto per la cultura
- Gianni Spartà
- 07/06/2020
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Detraiamo i consumi del sapere
La cultura non dà pane, sentenziò anni fa uno ministro della Repubblica che aveva in mente solo l’economia perché faceva l’economista. Beh, innanzitutto ne dà: quanti stipendi e fatture attorno al Colosseo, agli Uffizi, ai musei e ai parchi disseminati negli antichi borghi, quintessenza nascosta della grande bellezza italiana. E quanti soldi nell’indotto di cattedrali, torri, pinacoteche, teatri quando le moltitudini si mettono in fila per un tuffo nei nostri impareggiabili tesori. Ma c’è una seconda considerazione: i quadri di Raffaello, le ville romane, il David di Michelangelo sono rimasti nostri al pari dell’argenteria di famiglia che si tramanda per generazioni; molte delle cose dell’economia, con l’aria che tirava nel Paese anche prima dell’emergenza Covid, hanno cambiato passaporto. Nel migliore dei casi aziende storiche degli anni del boom battono da tempo bandiera americana, indiana, cinese (ed è una fortuna perché l’alternativa sarebbe stato il crac), mentre seducenti ninfe dell’alta moda a una a una cedono al fascino dello sceicco col cavallo bianco. Il quale affonda le mani nei suoi petrodollari e formula la proposta indecente. Grandi firme italiane, padroni gli arabi ricchi. Ora il Coronavirus ha segnato uno spartiacque epocale tra un evo medio di cui dobbiamo andare fieri per la poderosa crescita economica, al netto dei soprusi inferti alla terra e all’aria, e un rinascimento al quale daremo un senso comprendendo che si cambia smettendo di fare sempre le stesse cose. E di proteggere gli stessi interessi. E di rimettersi al timone ignorando che il porto d’arrivo non è più quello. Ci risvegliamo dopo tre mesi di letargo ed è come se nel frattempo Volta avesse inventato la pila, Marconi la radio, Sabin il vaccino antipolio. Ci accorgiamo di aver sfruttato, in anni sazi e spensierati, tutte le risorse naturali e umane per edificare una società rimasta fragile nonostante protagonismi, furbizie, polemiche, prepotenze, successi drogati dalla politica. E cosa fa un governo quando perlustra le trincee e ascolta il grido di dolore di chi ha chiuso, ha perso, s’è perso, è rimasto ferito? Un governo distribuisce i cerotti dell’assistenzialismo, in attesa che qualcuno abbia il coraggio di frugare nella farmacia e di vedere se da qualche si parte si trovano, tra garze provvisorie, medicine risolutive. Una di queste crediamo debba essere la valorizzazione dei Beni Culturali e di tutto quanto ci si può costruire attorno, stavolta con la convinzione evangelica che la pietra scartata dai costruttori diventa testata d’angolo. Come? Pensando che un museo possa rendere socialmente come una fabbrica, che la Scala sia più importante di Banca d’Italia? Evidentemente no: siamo e restiamo un Paese a trazione industriale anche se i robot sostituiscono gli operai nelle catene di produzione e negli ospedali rubano il mestiere e la fatica - diciamolo - agli infermieri. Ma non pensare di predisporre per figli e nipoti nuovi percorsi di attività lavorativa, sarebbe miopia: i sussidi durano un amen, i prestiti sono debiti, la cassa integrazione aperitivo del licenziamento. Continuare a considerare una cenerentola la cultura ci pare un suicidio: andiamo a testa alta nel mondo grazie all’ingegno, al gusto, alla bellezza di illustri italiani, la riapertura della Cappella Sistina unita alle fumate gioiose delle Frecce Tricolori ci ha fatto sentire di nuovo protetti da un nume esclusivo. E allora cominciamo dal piccolo. In uno dei prossimi decreti, Conte o chi per lui inserisca una norma che consenta al contribuente di detrarsi le spese per consumi culturali: ingressi ai musei, pagamenti delle guide, acquisto di libri, giornali, biglietti per cinema, teatro, concerti, iscrizioni a enti che propugnano conoscenza. Non cambia il mondo, lo sappiamo, cambia la visione: significa alzare lo sguardo in un Paese che, dopo la grande botta del Covid, somministri analgesici anche a chi desideri corroborare lo spirito, non solo il corpo. La cosa va fatta prima che evaporino i buoni sentimenti collettivi. Per il dolore delle morti ci vorrà tempo. Se non si agisce subito finisce come per l’esenzione dell’Iva al 22 per cento sulle donazioni di attrezzature salvavita agli ospedali. E’ stata deliberata a decorrere dal 19 maggio quando benefattori e Onlus si erano già dissanguati. E’ come se i vigili del fuoco intervenissero a incendio già spento.