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Ci invaderanno i marziani?

  • Gianni Spartà
  • 18/10/2020
  • 0

Furia e Marte

Sere fa il pianeta Marte in opposizione al Sole, cioè a distanza ravvicinata, era più brillante che mai nel cielo d’autunno. Lo batteva solo la Luna e le altre stelle sembravano sbiadite. L’ultima volta accadde nel luglio del 2018 e gli astronomi di tutto il mondo esultarono. Due anni dopo, giorni fa, hanno fatto di nuovo festa tempestandoci di fotografie, per loro materia di studio. Anche lì un virus malefico e finora imbattuto può compiere stragi di viventi? Sfogliando gli annali della Prealpina mi sono imbattuto in una foto e in un articolo del settembre 1956 che raccontavano i primi passi di Salvatore Furia, cacciatore di astri. Il tipo, catanese di nascita, varesino per scelta, se ne stava appollaiato sull’altura che domina il quartiere del Montello. Aveva il telescopio appoggiato su alcuni cuscini e ci guardava dentro con un occhio, scrutando le venature del pianeta rosso, allora  oggetto del desiderio di larga parte degli scienziati. L’occasione era quasi la stessa di oggi: Marte tra la Terra e il Sole ma in opposizione grande, fatto che capita ogni quindici anni. La comunità astronomica mondiale era mobilitata e da Varese, pensate, faceva la sua parte un gruppo di appassionati maneggiando strumenti avuti in prestito da Ippolito Segre, un astrofilo milanese. Qualche nome di quel gruppo che, accodandosi al prof visionario, avrebbe prima fondato la società Schiaparelli e poi costruito un osservatorio popolare in cima al Campo dei Fiori: Orlando Morelli, Giorgio Cavalieri, Eugenio Bini. Marte era una specie di esordio per la banda dei guardoni celesti. Poi venne l’osservazione  di una eclisse di Luna, quindi fu il passaggio dello Sputnik lanciato dai russi il 4 ottobre del 1957 a iniettare adrenalina in quel drappello di pionieri che si radunava assiduamente nella cucina di casa Furia. Anche perché di lì a poco sarebbe entrato in orbita un altro Sputnik, stavolta con a bordo un essere vivente: la cagnetta Laika. Fece tenerezza quella cucciola nello spazio. Serpeggiava  consapevolezza che prima o poi a infilarsi in una navicella sarebbe stato un uomo. Sovietico o americano? Sovietico, Jurij Gagarin. Erano gli anni delle paure di non essere soli nell’immensità. Ma anche delle esaltazioni: avevano successo nei cinema i film su esseri fantastici sbucati da lontanissimi punti dell’universo, nei negozi di giocattoli i vecchi soldatini di piombo cominciavano a lasciare il posto ai navigatori interplanetari. Di tanto in tanto i rotocalchi popolari parlavano di strani messaggi - bip-bip, uno al secondo - che non giungevano da località terrestri. Chi li emetteva doveva essere molto lontano, al di là del sistema solare. Si arrivò a dare un nome alle sconosciute creature: Little Green Men, piccoli uomini verdi. Più tardi si scoprì che quei richiami venivano lanciati dalle pulsar, le stelle più piccole e compatte. Ma se fosse stato possibile portare sulla Terra una scheggia del materiale che le componeva, il peso sarebbe apparso disumano: un miliardo di tonnellate. E tuttavia l’uomo della strada, dovendo immaginarsi il punto di partenza di quei suoni, pensava a Marte. E si domandava se saremmo stati invasi dai marziani brutti e cattivi o forse più buoni e tolleranti dei terrestri. La guerra fredda riscaldava il cielo. Il confronto tra le grandi potenze si andava misurando non solo nella gara per gli armamenti, anche nella capacità di andare più lontano possibile tra gli abissi siderali. Il vincitore della corsa avrebbe dominato il mondo. E invece la Cina era vicina se è vero che proprio un cinese di religione ebraica Chang-Sai Vita, sepolto al Sacro Monte, avrebbe regalato a Salvatore Furia 50 milioni di lire per costruire il suo osservatorio.

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